La “Donna” e la fanciulla
Grande successo per Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss, che ha aperto il Festival di Pasqua dei Berliner Philharmoniker al Festspielhaus di Baden-Baden
In fondo, si tratta di una storia piuttosto banale che trasuda conservatorismo borghese, specie se letto attraverso la lente di oggi: una donna non può avere figli, mal consigliata (?) prova a comprarne uno da una donna che non ne vuole avere con il marito e finisce tutto in un’apoteosi della maternità. Ad arricchirla, poi, c’è un’aura fiabesca dal portato simbolico molto oscuro e spesso confondente, costruito assemblando tradizioni diverse e lontane. E naturalmente c’è un mare di musica, bellissima, ma che in molti passaggi spinge in direzioni inattese e molto spesso spiazzanti. In due parole, è questa Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), quarta opera delle cinque nate dalla fruttuosa collaborazione fra Richard Strauss e Hugo von Hofmannstahl. “È un materiale fiabesco molto puro, molto nobile, con simboli meravigliosi (ricorda un po’ da lontano il flauto magico ...) Naturalmente non c’è nessuna somiglianza diretta con Il flauto magico, solo in generale il genere, ma molto più suggestivo e profondo”, scriveva il compositore alla moglie Pauline nell’aprile del 1911, che certifica il lungo concepimento del lavoro andato in scena a Vienna nel 1919 e quindi sviluppato in gran parte negli anni della Grande Guerra, nei quali la morte trionfava decisamente sulla vita.
Chissà se c’entra il legame con Il flauto magico (ribadito anche nella nota “proporzione” hofmannstahliana, secondo cui la Frau starebbe al Singspiel mozartiano, come il Rosenkavalier starebbe alle Nozze di Figaro) nella scelta di affidare alla regista Lydia Steier lo spettacolo, che ha aperto con grande successo l’annuale edizione del Festival di Pasqua al Festspielhaus Baden-Baden. Dell’opera mozartiana a Salisburgo la regista aveva firmato un allestimento nel 2018 (ripreso e rivisto la scorsa estate) che partiva dal racconto di un nonno per trasfigurarsi in una sorta di incubo circense nella fantasia dei nipoti. Anche questa nuova Frau parte da premesse simili, anche se più tenebrose e profonde, per portare una materia drammaturgica complessa e, in una certa misura, irrisolta in un territorio a lei congeniale che combina la dimensione fiabesca con una buona dose di ironia. Protagonista è infatti una ragazzina (Vivien Hartert, in scena dall’inizio alla fine) che vive la vicenda come un sogno o, piuttosto, un incubo nel dormitorio di un’istituzione (orfanotrofio?) gestita da religiose con inamidati cappelloni felliniani. “I suoi pensieri si mescolano a narrazioni ancestrali della femminilità: una favola sulla maternità, sull'impotenza femminile e sull'auto-emancipazione”, spiega il consulente alla drammaturgia Marc Schachtsiek nella sinossi addomesticata riportata nel programma di sala. Nello spoglio dormitorio dominato da una immagine della Vergine allattante (figura che tornerà in maniera ricorrente nel corso dello spettacolo, compreso in versione horror con capezzolo sanguinante e come altissima dispensatrice dell’acqua/latte della vita) e da una grande statua di San Giorgio e il drago, che prenderà vita come messo minaccioso di Keikobad e delle forze ultraterrene con i loro oscuri messaggi di morte. Simboli religiosi a parte, la coppia imperiale sembra uscita da una commedia hollywoodiana degli anni Trenta (i fantasiosi costumi sono di Katharina Schlipf): lui in frack, cilindro e bastone si muove su passi di danza fino a quando non diventa una statua di gesso (ma anche dopo cambia poco); lei è fasciata in tubino e sbuffi di veli bianchi, inconsapevole (per non dire idiota) fino alla sua presa di coscienza nel finale. Le stesse creature animali, che tornano nei racconti della coppia, portano piume di struzzo come ballerine di una vecchia rivista. La coppia dei tintori, invece, gestisce un negozio che sembra un macello ma è tutto rosa e piastrellato, nel quale non si affittano uteri, perché i bambini si comprano già fatti, dopo scelta oculata nelle vetrine scaffalate di coppie bramose di maternità. La suora di guardia del dormitorio è la nutrice, la mezzana che prova a blandire la donna del tintore con lusinghe sessuali per cedere l’ombra all'imperatrice. Per quanto ben congegnato e divertente, anche grazie alle ingegnose e mobilissime scenografie di Paul Zoller, il racconto scenico di Lydia Steier finisce per ingarbugliare ancora di più la già complessa trama, sollevando ancora più interrogativi di quanti non ne risolva e, inevitabilmente forse, aggirando l’ostacolo di una raffigurazione psicologicamente credibile dei personaggi (e chi ne soffre di più è la compagine degli umani ridotti a macchiette comiche o poco più) e, per evitare il quadretto consolatorio del tronfio finale, prendendo la scorciatoia di un finale sospeso e irrisolto: la ragazzina scava disperatamente a mani nude nei mucchi di terra sotto una pioggia di brandelli bruciati, come in un paesaggio oltraggiato da una violenza bellica.
Le vere sorprese, tuttavia, stavano tutte nella esecuzione musicale affidata alla meravigliosa macchina sonora dei Berliner Philharmoniker guidati da un sorprendente Kirill Petrenko. Che quest’opera potesse reggere a una lettura quasi cameristica e miracolosamente rispettosa delle voci, malgrado l’imponente massa strumentale impiegata da Strauss, si poteva solo immaginare o sperare. Invece Petrenko riesce nell’ardua impresa, restituendo all’ascolto una scrittura orchestrale per niente enfatica o magniloquente, nervosissima eppure intensamente lirica, ma soprattutto proiettata completamente sulla modernità, rovesciando il logoro cliché di uno Strauss tutto rivolto al passato. Quanto alle voci, nel quintetto dei protagonisti Miina-Liisa Värelä, la moglie del tintore, nonostante l’annuncio di una sua leggera indisposizione, si impone su tutti per la solidità combinata con un’apprezzabile duttilità del mezzo vocale ma anche per la partecipata adesione al disegno registico. Molto riuscite anche le prove di Wolfgang Koch, il tintore Barak reso con partecipata sensibilità, di Michaela Schuster, la nutrice, che copre con un forte carisma scenico e intelligenza qualche segno di usura nel mezzo vocale, e di Elza van den Heever, un‘imperatrice più compiuta sul piano vocale. Meno interessante, invece, il legnoso imperatore di Clay Hilley, comunque di buona tenuta vocale. Impossibile citare uno ad uno tutti gli altri numerosi interpreti minori, tutti comunque all’altezza, mentre da lodare sono le prestazioni del Coro del Forum musicale nazionale di Breslavia e le voci bianche del Cantus Juvenum di Karlsruhe.
Pochi vuoti in sala alla prima, pubblico particolarmente elegante, risposta calorosa con ovazioni per Petrenko e l’orchestra.
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